Intervista a Pierpaolo Corradini di Bio al Sacco

di Andrea Vassalle

Milano – Domenica mattina. Ho preso degli appunti sabato notte per intervistare Pier Paolo Corradini, titolare del negozio Bio al Sacco di Pisa. Tre anni e mezzo fa ha deciso di lasciare il suo lavoro di giornalista per aprire insieme alla moglie Martina un negozio di prodotti sfusi biologici. Cosa c’è di meglio per inaugurare le Interviste Ecolobbiste?

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Andrea Vassalle – Buongiorno Pierpaolo

Pierpaolo Corradini – Buongiorno

AV – Iniziamo dal principio: come vi è venuta l’idea di BIO al SACCO? 

PC – Ho sempre fatto altri lavori in vita mia, ma questa idea mi frullava in testa da tanti anni. Come giornalista mi sono spesso occupato di tematiche ambientali e di cibo; ho scritto vari articoli per Altraeconomia e come inviato de l’Espresso sono stato a Göteborg in Svezia per visitare un parco rifiuti. 

Ho sempre fatto parte di un GAS, almeno fino all’apertura del negozio, dalla nascita di mia figlia 17 anni fa. Da questa esperienza ho iniziato a conoscere i fornitori, ad apprezzarli, a capire un altro metodo di vendita e acquisto.

Nel frattempo i mille lavori che facevo oltre il giornalista non mi soddisfacevano e con mia moglie abbiamo deciso di buttarci in questa impresa. Non avendo nessuno dei due alle spalle esperienze nel commercio, abbiamo studiato, abbiamo sperimentato, facendo anche degli sbagli, e ora sono 3 anni e mezzo che siamo aperti.

AV – Nel 2011 hai pubblicato Quello che le etichette non dicono. Leggendo questo libro viene da pensare che tu sia voluto passare dalla denuncia, o comunque dall’inchiesta, all’azione. Parlaci del tuo libro e di quello che è successo da quando l’hai scritto a quando avete aperto BIO al SACCO.


PC –
Ho scritto Quello che le etichette non dicono per la necessità di capire meglio cosa mangiavo e cosa mi spalmavo addosso… in realtà penso che già scrivere il libro sia stato passare all’azione: è stato un tentativo di fornire uno strumento per orientarsi e districarsi nel complesso mondo delle etichette, adatto a tutti, anche cercando uno stile meno “palloso” possibile, proprio per evitare che fosse un elenco di nozioni e precauzioni. 

Una volta apprese le conoscenze che ho poi messo nel libro, mi sono accorto che non bastava. Da quando abbiamo aperto il negozio continuo ad apprendere cose nuove, soprattutto per la necessità di verificare che i produttori dai quali mi rifornisco rispondano effettivamente alle esigenze di una bottega come la nostra. Ad esempio ho scoperto che un’azienda agricola può vendere fino al 49% di prodotti non suoi etichettandoli come suoi. Come Bio al Sacco cerchiamo quindi di non fermarci alle apparenze, ma di approfondire, proprio come il Signor No del mio libro, e di divulgare e di informare il più possibile sia i nostri clienti, sia le persone che ci seguono sui social media.

AV – Qual è la filosofia di una piccola bottega con prodotti sfusi e con attenzione al biologico e al km 0? In un certo senso è un ritorno al passato, allo stesso tempo è una sfida attualissima. Raccontateci questo connubio tra romanticismo e attualità.

PC – Aprire una bottega dello sfuso è senza dubbio un ritorno al passato, ma non tanto per nostalgia o romanticismo, quanto per logica: se si può evitare la plastica, perché non farlo? Se si può evitare di pagare il surplus del confezionamento e dell’etichettatura della plastica, perché non farlo? Se in passato funzionava, può funzionare di nuovo. Ovviamente rispetto all’immediato dopoguerra è tutto più difficile perché la legislazione è più esigente e non ci viene incontro assolutamente, ma questo non ci ha certo fermato.

Per quanto riguarda la vendita di biologico e biodinamico, la scelta è stata semplice e obbligata: noi ci crediamo. Un prodotto biologico, e ancora di più uno biodinamico, deve sottostare a un protocollo che impedisce l’uso di determinati prodotti, dunque se ho meno contaminanti nella produzione, quello che vendiamo sarà meno inquinante per noi e per l’ambiente. Semplice. Logico.

Stesso aspetto per la filiera corta e la stagionalità, la logica: non solo per il trasporto e il minore inquinamento, ma anche perché sono i prodotti della zona, cioè quelli che si sono usati da sempre. Coi produttori locali si instaurano più facilmente rapporti diretti e finisce che al fornaio e al pasticcere posso chiedere una ricetta diversa, al contadino far piantare qualcosa che in Italia non si coltiva molto come i semi di zucca. La grande distribuzione non può arrivare a questo tipo di rapporto diretto coi produttori e noi invece sì. E’ capitato che un cliente abbia chiesto come mai le uova non erano sempre uguali e l’allevatore ci ha spiegato che le galline a volte si stressano, magari perché passa un aereo in quel momento, e questo influisce sulle uova che producono. Questo continuo scambio è l’essenza della nostra attività.

Poi, a differenza di altri, abbiamo deciso di non fare solo filiera corta e abbiamo, ad esempio, una cinquantina di varietà di spezie. Abbiamo quattro importatori, tre italiani e uno tedesco, per le spezie che non si producono in Italia, chiaramente sono prodotti che necessariamente vengono da lontano e non è facile avere la certezza di ottenerli biologici, ma aumentano l’offerta dello sfuso in modo interessante.

AV – In questi anni l’attività vi ha messo dunque in contatto con produttori straordinari e dall’altro lato con clienti curiosi ed esigenti, la mia impressione è che oltre a far incontrare la domanda e l’offerta, il vostro negozio sia anche un attore culturale, un laboratorio creativo. Quali sono le cose che vi hanno soddisfatto di più della vostra attività, quelle che vi hanno stupito, quelle che vorreste cambiare?

PC – Produttori straordinari ne abbiamo conosciuti tanti, a volte dobbiamo lottare con disastri nella puntualità o consegne disordinate, ma ne vale la pena quando le cose che poi mettiamo in vendita sono eccezionali. 

Clienti ne abbiamo di tutti i tipi, per la maggior parte sono esigenti e con cognizione, altri hanno visto su internet cose assurde e infondate e sono un po’ confusi, altri che ci vengono a chiedere cose come se fossimo una farmacia o dei nutrizionisti… e non lo siamo… certamente sappiamo quale prodotto ha più calcio o più vitamine, ma non possiamo consigliare diete o rimedi…

La cosa che ci ha soddisfatto di più è che la nostra attività funziona, sia dal lato remunerativo, sia dal lato della diffusione dello sfuso. All’inizio c’era più che altro curiosità, adesso ci sono sempre più clienti consapevoli che si portano i propri contenitori da casa, con la lista della spesa. Ovviamente la moda Zero Waste ci fa gioco, così come il successo dei movimenti dell’ultimo anno e la fama di Greta Thumberg. In generale direi che la consapevolezza per queste tematiche è molto più diffusa.

La cosa che ci ha stupito di più, forse, è proprio l’ignoranza di alcuni clienti sulle problematiche relative al biologico e allo sfuso, in più abbiamo notato un divario generazionale: i giovani sono molto più attenti e preparati delle persone dai 60 in su. Anche gli ottantenni che hanno vissuto lo sfuso non lo percepiscono come un’esigenza e una direzione buona verso cui andare (o tornare come nel loro caso).

La cosa da cambiare sarebbe la dimensione del negozio. Bio al Sacco è una bottega molto piccola, quando organizziamo corsi di approfondimento e laboratori dobbiamo appoggiarci al circolo ARCI qui vicino. Se fossimo più grandi potremmo organizzare molte più attività, ci permetteremmo un piccolo mulino, una macchina per fare le creme…

AV – L’associazione ECOLOBBY si è data, anche provocatoriamente nel nome, l’obiettivo di porsi come facilitatore tra le realtà associative e produttive e il mondo della politica per far sì che si attui la Transizione Ecologica. Cosa vi sentite di consigliarci? Quali sono le reti con cui vi interfacciate più proficuamente e cosa vorreste che un’associazione come ECOLOBBY portasse avanti dal punto di vista di BIO al SACCO?

PC – A un’associazione come ECOLOBBY certamente chiederei di fare pressione per migliorare la legislazione in materia di prodotti venduti sfusi, ci sono moltissimi vincoli che l’Italia ha adottato anche recependo direttive europee: la farina di grano sfusa, per esempio, non si può vendere; da qualche mese non si può più vendere la cosmetica sfusa, nemmeno le saponette al taglio o lo shampoo o il bagnoschiuma liquidi si possono vendere sfusi. Bisogna stare attentissimi alla pulizia, alle chiusure, agli imballaggi, al magazzino, e, avendo il 95% di prodotti biologici abbiamo poi ulteriore burocrazia, ulteriori controlli, ulteriori separazioni delle merci, una problematica vasta insomma.

A livello nazionale ci sono proposte di incentivi, che per ora sono appunto solo proposte.

A livello comunale esistono alcuni esempi di tentativi di facilitare la vendita sfusa: uno su tutti la  riduzione della TARI alle realtà che riducono i rifiuti a monte, e lo sfuso rientra certamente in questa categoria. Sarebbe importante fare pressione per ottenere misure che vadano in questa direzione su tutto il territorio nazionale.

Abbiamo anche fatto rete tra 25 botteghe che si occupano di sfuso, la Rete delle Botteghe Sfuse Indipendenti. Ci sono già altre botteghe che ci hanno chiesto di entrare, come requisito bisogna avere almeno un anno di attività e il 70% o più di sfuso. 

Lavoriamo poi con altre associazioni: abbiamo fatto il Green Friday con LegAmbiente, siamo attivi anche con Greenpeace.

AV – Sempre parlando di reti, qual è il rapporto che avete coi social media per quando riguarda il “locale” e quale per quanto riguarda i contatti con realtà o clienti più lontani?

PC – I social media, soprattutto Facebook e Instagram, sono uno dei modi migliori per farci conoscere e fare informazione; Instagram per la fascia più giovane e Facebook gli altri. 

Puntiamo molto sul locale, ma abbiamo fan un po’ in tutta Italia. In questo periodo lo Zero Waste  va decisamente di moda e alcuni gruppi ci seguono per capire quali sono le ultime tendenze e quali sono le alternative alla plastica. A proposito di questo argomento noi non siamo contrari alla plastica tout court, siamo contrari alla plastica usa e getta, la plastica durevole è un materiale eccezionale secondo noi. La nostra stoviglioteca sta avendo un certo successo, in pratica diamo in comodato gratuito a chi si prenota un numero variabile di stoviglie di plastica dura lavabile, colorata e senza BPA. L’idea piace molto e riduce lo spreco.

Clienti lontani non ne abbiamo, abbiamo fatto l’e-commerce vincendo un bando con la camera di commercio, per dare la possibilità di fare la spesa online e ritirare la spesa in negozio, e a quel punto ci siamo detti che poteva anche essere interessante per vendere e spedire a clienti più lontani. Da quel momento non abbiamo fatto nemmeno una spedizione…

AV – Ti ho appena ordinato le bellissime “schiscette” col vostro logo, ma neanche in questo caso le spedirai, visto che incontrerò tua moglie Martina a Milano prossimamente… niente da fare…

La plastica, ribadiamolo, è uno degli argomenti più importanti del dibattito ecologico a livello planetario. Nella vostra attività l’uso degli imballaggi e della plastica sono ridotti al minimo, addirittura offrite una stoviglioteca, come dicevi, a chi vuole organizzare feste. Secondo voi quali sono le strategie migliori per contrastare l’indifferenza dei produttori e dei consumatori in fatto di spreco di plastica? Quanti clienti scettici siete riusciti a rendere consapevoli? Ci sono stati dei produttori che hanno cambiato le proprie consuetudini per venire incontro alle esigenze di cui siete promotori?

PC – Crediamo di aver sensibilizzato moltissime persone. Venire coi propri contenitori è bello, è comodo: arrivi in negozio, fai la tara, riempi, torni a casa metti nella dispensa; immaginati i mobili tutti colorati con i prodotti a vista. Bellissimo. 

Anche ai produttori abbiamo chiesto, sia singolarmente che come rete, di fare contenitori più grandi o di usare imballaggi di carta invece che di plastica. In alcuni casi eliminare la plastica non è possibile, ad esempio per creare l’ATM, l’atmosfera modificata con diversa quantità di azoto che permette una migliore conservazione, la plastica è necessaria. Chi usa la carta è perché ha celle frigorifere nelle quali può tenere il prodotto, ad esempio la farina, fino all’ultimo momento. Un altro problema sono le stagioni: in estate prendere sacchi di riso di 25 kg come in inverno è rischioso, perché se durante il trasporto rimangono un paio di giorni fermi in qualche magazzino, rischiano di formarsi vermetti e farfalle; quindi arrivano solitamente pacchi di plastica da 5 kg in atmosfera modificata. Anche per nocciole e frutta secca in generale, le confezioni sono sotto vuoto e anche lì con la carta non si può fare. 

Molte volte siamo riusciti a convincere i produttori ad usare la carta al posto della plastica, ma soprattutto è importante far cambiare la tipologia di imballaggio: per esempio i giornali vecchi al posto delle palline di polistirolo o della plastica con l’aria. Su questi aspetti lavoriamo molto sia come Bio al Sacco sia come Rete delle Botteghe Sfuse Indipendenti.

AV – Mi piacerebbe finire questa chiacchierata con dei consigli di lettura. Qualcosa che vi ha ispirato, qualcosa per approfondire, qualcosa di ricreativo.

PC – Fammici pensare, sono in fase di trasloco e ho tutto imballato… L’ultimo libro che ho letto è Plastica Addio di Elisa Nicoli e Chiara Spadaro. 

Qualcosa che va al di là della nostra attività ma che sicuramente ci ha ispirato tantissimo sono Mangiare Bene, Bere Bene, Vivere bene di Walter C. Wallet, oppure, magari non proprio ricreativo come mi chiedi, Medicina da Mangiare, che è una guida alla cucina macromediterranea del prof. Franco Berrino con le ricette di Silvia Petruzzelli.

vassalle.andrea@gmail.com

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