Nello scrivere queste poche righe ho incontrato non poche difficoltà. Prima di tutto perché le parole disordine, entropia, irreversibilità godono di sfumature diverse anche nel linguaggio comune, a seconda del contesto in cui vengono utilizzate; secondariamente per il fatto che, per quanto i principi della termodinamica siano basati su solide (e sempre riproducibili) osservazioni sperimentali, la loro formulazione può essere costruita utilizzando approcci anche molto differenti per giungere comunque sempre alle medesime conclusioni, a dimostrazione della coerenza della teoria stessa. La sua impalcatura concettuale è infatti frutto del lavoro secolare di più mani e più visioni, da Clausius, Kelvin, Boltzmann fino ad arrivare alla teoria dell’informazione di Shannon. Posta questa premessa, quale dunque l’approccio più corretto per introdurre il secondo principio ad una platea più vasta di questi super-addetti ai lavori?
Il "frigo in una stanza"
Direi allora di cominciare con la più semplice domanda di carattere pratico che mi viene in mente, in realtà già domanda di esame nel corso di Fisica ai miei anni (e forse anche oggi), che così recita: “se apriamo un frigorifero in una stanza chiusa e ben isolata dal resto del mondo, possiamo sperare che il frigorifero aperto finirà per raffrescare tutta la stanza oppure no?”
Come si vede si intende dare una risposta ad un’esigenza tanto semplice quanto condivisibile: se ho caldo vorrei usare quello che ho a disposizione per raffrescarmi. Molte persone a cui viene sottoposto questo quesito pensano effettivamente che alla fine dei conti il contributo del frigorifero sarà quello di raffrescare la stanza. Eppure sbagliano: il frigorifero aperto finirà per riscaldare ulteriormente l’ambiente.
Per convincersi di ciò dobbiamo cominciare con una considerazione: il frigorifero è attaccato ad una presa elettrica che immette energia dall’esterno all’interno della stanza. Non è pertanto propriamente corretto pensare che la stanza sia perfettamente isolata, poiché la presa di corrente è un veicolo di comunicazione tra il locale e qualcosa di esterno che fornisce energia.
A questo punto bisogna anche chiarire cosa intendiamo esattamente per temperatura, ossia un parametro che indica lo stato di agitazione della materia a livello microscopico. Un tavolo fermo, un libro, una barra di ferro sono solo apparentemente “cristallizzati” perché in realtà sono costituiti da strutture vibranti di costituenti elementari: possiamo pensare ad atomi legati tra loro e non perfettamente inchiodati nella posizione assegnata, ma liberi di muoversi nel poco spazio in cui è concesso loro. La temperatura non indica altro che il grado di agitazione di questi costituenti.
Nel ghiaccio (acqua a bassa temperatura), le molecole di acqua sono sufficientemente “quiete” da costituire legami tra loro sufficientemente forti e formare una struttura geometricamente definita, un cristallo. Non appena fornisco calore a questo sistema le molecole di acqua si agitano di più, il solido si scioglie e le molecole iniziano a scorrere vicine, pur trattenendosi ancora abbastanza raggruppate in forza delle attrazioni ancora persistenti tra molecole vicine, circostanza che rende l’acqua per lo più liquida alle nostre temperature (e alla nostra pressione atmosferica). Se fornisco ulteriormente calore potrò ad un certo punto rompere anche questi legami, e vedrò allora le particelle di acqua liberarsi in aria: saremo arrivati all’evaporazione, processo in cui il liquido passa allo stato gassoso e non sussiste praticamente più nessun legame tra una molecola e l’altra.
Proprio in quanto misura dell’agitazione microscopica, diremo allora che la temperatura è espressione di un’energia associata al movimento delle particelle, anche se questo movimento non è percepibile ad occhio nudo: un’energia di questo tipo è chiamata energia cinetica, dal verbo greco kinèo che vuol dire appunto “muovere”.
Ritornando al nostro frigorifero, questo dispositivo per funzionare sta sicuramente utilizzando energia elettrica, che come abbiamo detto entra nel suo motore (quindi in ultima analisi nella stanza) dall’esterno attraverso la presa di corrente. Dobbiamo allora capire perché il secondo principio della termodinamica ci rende certi del fatto che quell’energia immessa finirà praticamente sempre per convertirsi in energia cinetica a livello microscopico della materia presente nella stanza, ossia ne aumenterà la temperatura – che come abbiamo detto misura proprio il grado di agitazione dei suoi costituenti elementari.
Energia "utile" ed energia "inutile"
Facciamo un ulteriore passo in avanti domandandoci: che differenza c’è tra un gas agitato dentro un barattolo e un alito di vento che possiede la stessa energia cinetica del primo?
La differenza sta negli effetti macroscopici che ne possiamo ottenere. Una leggera brezza è in grado di far oscillare le foglie, un vento più intenso può spostare anche oggetti. Compie in sostanza delle trasformazioni evidenti, diremo che compie un lavoro. Un vento che spazza le foglie oltre la strada compie lo stesso lavoro che potrebbe essere eseguito da un giardiniere pressappochista. Esiste una particolare direzione nell’azione del vento, dunque nei suoi effetti tangibili; al contrario il gas in un barattolo è più “democratico” nelle direzioni delle sue particelle (tutte equiprobabili), però questo fatto lo rende assai più “inutile”: il gas non è in grado di spostare il barattolo in una data direzione per un tempo sufficiente da rendere questo fenomeno evidente. Ossia: ogni volta che una particella sbatterà su una parete imprimerà al barattolo un impulso in una direzione precisa, impulso che però sarà controbilanciato da un immediatamente successivo impatto di una particella sulla parete opposta. In sostanza il barattolo rimane fermo sul posto dove è stato posizionato.
Allo stesso modo la temperatura di una stanza, ossia l’agitazione dei gas costituenti l’aria al suo interno, rende tutta quella energia sostanzialmente “inutile” ai fini di uno scopo lavorativo: da una stanza non si ottiene lavoro solo per il fatto che è calda.
E qui entrano in gioco il possibile e il probabile
Ci chiediamo allora, nell’ipotesi di immettere energia nella nostra stanza di prova (quella con frigo e presa elettrica, per intendersi) , quale sia l’opzione più probabile: 1) che l’energia immessa finisca per convertirsi in un movimento “ordinato” come un vento, ossia in una corrente d’aria avente una precisa direzione all’interno della stanza, 2) oppure in un’agitazione cinetica più “democratica” nella sua distribuzione di direzioni, quindi anche più “disordinata”. Potremmo fare allora mille e mille prove (ricordiamo che un principio deriva dall’osservazione sperimentale!) per concludere alla fine che la prima ipotesi è assolutamente improbabile, per quanto comunque possibile. La nostra esperienza diretta ci suggerisce questa conclusione.
Il secondo principio non fa allora altro che attestare l’idea posta alla base della statistica: le evoluzioni più probabili di un sistema sono quelle che si verificano più spesso. Il che nel nostro caso si traduce in questo modo: poiché le configurazioni del gas che hanno “direzioni di velocità casuali” sono assai di più delle configurazioni di particelle “ordinate in una direzione”, sarà altamente improbabile ottenere un lavoro utile dal mio frigorifero aperto nella stanza calda, sperando che l’energia immessa sia convertita in un modo sfruttabile per un lavoro macroscopico.
Certo è anche vero che anche una scimmia, se disponesse di un tempo infinito da passare davanti al computer, finirebbe prima o poi per scrivere la Divina Commedia, ma siamo tutti pronti a scommettere che il tempo dovrebbe essere veramente tanto.
Una direzione privilegiata nelle trasformazioni della Natura
Nel contesto descritto sembra evidente che l’evoluzione delle cose, da una semplice stanza all’Universo intero, tenda statisticamente (cioè: non sempre e ovunque, ma assai frequentemente) ad un maggiore disordine, in altre parole ad una maggiore inefficacia nel poter sfruttare l’energia per scopi a noi utili. Diremo addirittura che tempo ed aumento del disordine sono due concetti strettamente legati: se ammettiamo che, visto dal nostro punto di vista, il tempo scorra sempre in avanti (circostanza assolutamente non scontata nella teoria quantistica dei campi, ad esempio), dobbiamo ammettere che il disordine tenderà in futuro sempre ad aumentare.
Questo in pratica significa che, una volta definita la direzione del tempo (e quindi distinti passato e futuro) la Natura ha una predilezione statistica nello scegliere se per un certo sistema una trasformazione avviene da una data configurazione “A” ad una configurazione “B” o viceversa. Pensiamo ad esempio ad una bottiglia di plastica: è facile immaginare che se viene sottoposta a calore questa si squagli, come è altrettanto inimmaginabile il fatto che sottraendo calore alla plastica fusa possiamo sperare di vederla ricomporsi nella forma originaria.
Esiste quindi una direzione privilegiata per qualsiasi azione della Natura: anche una semplice reazione chimica come la combustione del metano delle nostre caldaie porta all’aumento della CO2 e del vapore acqueo a sfavore dei reagenti metano e ossigeno, e non il viceversa.
E qui si parla di macchine termiche cicliche e dei loro costi
Come è possibile allora, in questo contesto apocalittico, giustificare il funzionamento dei processi di trasformazione e di produzione che sono alla base sia dell’economia reale sia della biologia degli esseri viventi (come ad esempio la respirazione cellulare)?
Per prima cosa dobbiamo osservare che, per essere funzionali ai nostri scopi di vita, tali processi devono essere ciclici: è impensabile voler costruire una macchina che produca una sola maglietta per poi dover essere buttata via, oppure una cellula che compia solo un’azione per poi degradare immediatamente nell’improduttività. Noi stessi ci svegliamo, mangiamo, lavoriamo e di nuovo andiamo a coricarci giorno dopo giorno (pur perdendo ahimè progressivamente efficienza, in piena coerenza con il principio applicato a livello globale), secondo una serie ciclica di azioni che speriamo di ripetere più a lungo possibile. Ebbene, se abbiamo detto che la natura predilige una “direzione” nella trasformazione delle cose, per far compiere un ciclo ad un sistema è necessario forzarlo a ritornare nella configurazione iniziale. Poiché l’acqua che si trova ad una certa quota tende a scorrere verso il basso, se vogliamo farla tornare alla quota di partenza dobbiamo azionare una pompa. E questa forzatura, questo pompaggio, è il costo che dobbiamo sostenere per chiudere il cerchio e ottenere una serie di trasformazioni che tutte le volte possa ripartire da zero, partendo dallo stato iniziale per poi ritornarvi. Possiamo allora pensare di portare i processi ad un’ottimizzazione sempre più spinta, ma anche in questo sussiste un limite fisico, un traguardo finale ideale oltre il quale non si può andare, come è stato dimostrato dal giovane Sadi Carnot già all’inizio del diciannovesimo secolo. In altre parole, qualcosa si deve sempre spendere: Carnot ci mostra che esiste un rendimento “massimo”, ottenibile peraltro solo con una macchina “ideale” (quindi non realizzabile in modo perfetto).
Torniamo sulla Terra: le morali da trarre
Nell’analogia che stiamo portando avanti fin dall’inizio la stanza è il Pianeta Terra, la presa di corrente è il Sole grazie al quale giunge al pianeta l’energia per attivare come una pompa tutti quei cicli indispensabili per la vita: la fotosintesi, processo attraverso cui le piante producono l’ossigeno che noi respiriamo, passa da una prima fase detta luminosa proprio perché azionata dall’energia solare ultravioletta. Lo stesso ciclo dell’acqua necessita di energia solare per la fase di evaporazione, che è proprio il “pompaggio” del liquido verso l’alto, sotto forma di vapore. Le risorse materiali del Pianeta sono limitate per definizione (il suo volume è finito), ma il Sole ci garantirà per altri cinque miliardi di anni l’erogazione di un’energia “utile”, utilizzabile per i processi macroscopici attorno a noi. Anche solo per questo motivo tutti i tentativi di captazione dell’energia solare (e di quella eolica, di questa indirettamente conseguenza) sono da considerarsi sani in un’economia che punta all’ottimizzazione delle risorse.
L’anima del secondo principio è tutta qui, tradotta (spero in modo semplice) dalle parole di capostipiti della scienza termodinamica come Lord Kelvin, Planck e Clausius: è impossibile far funzionare macchine cicliche in modo indolore, ossia a costo zero in termini di consumo di risorse. E le risorse, come ammette lo stesso premio Nobel Paul A. Samuelson nella sua definizione di economia, non sono infinite ma anzi molto limitate, e per questo vanno distribuite (e utilizzate) con un certo criterio. Inoltre sussiste il problema degli scarti, i residui di energia ormai “inutile”, che il secondo principio ci garantisce saranno sempre presenti in qualsiasi processo. Potremmo pensare di poterci nutrire senza mai espellere scarti dal nostro organismo? Potremmo pensare di utilizzare un’automobile tappando il suo tubo di scappamento? Potremmo pensare di riconvertire in lavoro utile tutto il calore acquisito da una sorgente, senza avere nemmeno uno scarto residuo di calore? È in particolare quest’ultima domanda che ci porta alla vera questione del nostro secolo, ormai agli occhi di tutti: la sfida del surriscaldamento globale.
Per saperne di più
Di termodinamica si parla praticamente ovunque. Dal greco termo-(ϑερμός, “caldo”) e da -dinamis (δύναμις, “forza”) questa scienza nacque appositamente per studiare come ricavare trasformazioni utili all’uomo a partire dallo scambio di calore tra corpi. Tra i primi risultati le applicazioni sul ciclo del vapore (ad es. telaio e locomotiva a vapore). Qualche spunto utile ovviamente già su wikipedia, mentre per testi più approfonditi si può arrivare, con un adeguato bagaglio matematico, anche alla monografia “Termodinamica” di Enrico Fermi (vi era un’edizione Bollati Boringhieri, penso ancora oggi recuperabile). Per correlazione tra entropia ed informazione si può consultare il lavoro del matematico e ingegnere Claude Elwood Shannon. Ma ovviamente la lista sarebbe ancora molto lunga.
Aprile 2020
Autore:
Prof. Luca Alfinito, fisico magistrale, si occupa di ambiente ed energia dal 2001. Dal 2005 è abilitato alla professione di ingegnere con laurea N.O.