Sette anni alla fine del Mondo. Ma è vero?
Una riflessione su cosa e come comunicare rispetto al Disastro Ecoclimatico in corso.
A New York è comparso qualche giorno fa, durante la settimana per il clima, il “Climate Clock”, ovvero un countdown, un conto alla rovescia, visualizzato su un enorme orologio digitale installato sulla parete di un grande palazzo di Manhattan.
Un conto alla rovescia che ci dice che ormai mancano 7 anni e spiccioli alla fine del Mondo.
O meglio, al momento in cui i cambiamenti climatici saranno irreversibili.
Dopo che sarà terminato questo tempo, se nel mentre non saranno stati presi adeguati provvedimenti, avremo esaurito il nostro “carbon budget”, ovvero quella quantità di CO2 che possiamo ancora emettere in atmosfera prima che essa inneschi un cambiamento del clima non più controllabile.
Un attimo prima dell’esaurimento del budget, dovremo aver raggiunto un livello di emissioni pari a zero, ovvero dovremo riuscire a produrre tutta l’energia di cui abbiamo bisogno da fonti rinnovabili.
Ad oggi per capirsi la percentuale di energia prodotta da fonti rinnovabili a livello mondiale è il 27% circa.
Il climate clock è un’iniziativa di attivisti e scienziati, ed ha lo scopo ovviamente di sensibilizzare l’opinione pubblica.
Ma quanto è fondata questa stima, e quanto è utile questa visualizzazione, questo modo di comunicare?
Beh, in tutta sincerità non lo so.
“Non lo so”, è per la verità la mia esatta e precisa risposta sia alla prima che alla seconda domanda.
Ma sono due domande importanti che è doveroso in ogni caso farsi.
Quello che si dice, e come lo si dice, è decisivo per vincere la sfida del consenso di massa, senza il quale nessuna conversione ecologica sarà possibile.
Affrontiamo il primo quesito, dunque.
Il carbon budget è una stima, autorevole, poichè fatta dagli scienziati dell’Onu, quindi dalle più prestigiose menti scientifiche del Mondo, di quante emissioni di CO2 possiamo ancora permetterci prima di riscaldare l’atmosfera terrestre in media non più di un grado e mezzo rispetto all’era pre-industriale, poichè oltre quella soglia si ritiene che potrebbero innescarsi effetti a catena non più gestibili.
Una stima autorevolissima, ma una stima.
Che intanto prende come parametro esclusivamente il clima, e non, ad esempio, il crollo verticale della biodiversità, che potrebbe già da tempo aver superato il punto di non ritorno.
Ancora più precisamente, prende come parametro la temperatura media planetaria, quindi non tiene conto che regioni come l’artico o l’antartico, o anche il nostro mediterraneo e la nostra italia, sono già ampiamente sopra il limite dell’aumento di un grado e mezzo, e questo potrebbe anticipare ad esempio quelle reazioni a catena di cui si parlava poco sopra, date in gran misura dallo scioglimento del permafrost artico con susseguenti emissioni massive di metano.
Insomma, le cose potrebbero stare assai peggio, ed essere ancora più gravi, di quanto risulti da quel conto alla rovescia.
Del resto la storia dell’ecologismo mondiale ha una costante: previsioni regolarmente tacciate di catastrofismo, che invece si rivelano altrettanto regolarmente sottostime, previsioni più ottimistiche della realtà.
Temo sarà vero anche stavolta.
La seconda questione, ovvero di cosa si comunica e di come, mi interessa ancora di più ed è però connessa alla prima.
Ogni comunicazione – oggi soprattutto, nell’era della comunicazione ultraveloce e globale – contiene necessariamente una semplificazione.
E’ inevitabile, ma bisogna saperlo bene.
Sapere cosa si semplifica, e che effetti e che distorsioni percettive può portare tale semplificazione.
Una prima potenziale distorsione percettiva mi preme moltissimo.
Quando si utilizza l’immagine di un countdown, si parla inevitabilmente di qualcosa che, sebbene relativamente vicino nel tempo, si colloca comunque nel futuro.
Ecco io sono convintissimo che uno dei problemi, anzi il maggiore dei problemi, del nostro comunicare il tema del collasso eco-climatico, sia proprio quello di collocarlo nel futuro.
Questo secondo me ha effetti devastanti: qualsiasi persona, tra un problema di oggi e un problema di domani, per quanto il secondo possa essere grande e grave, penserà sempre che ci si debba occupare prima del problema di oggi.
Quindi, che prima dell’ambiente si debba parlare del lavoro, della sanità, delle migrazioni, della povertà.
Scindendole dalla questione ambientale.
Contrapponendole ad essa, addirittura, in taluni casi.
Mettendole comunque in una gerarchia, in una sorta di hit parade.
Hit parade che magari il tema ambientale sta piano piano scalando, certo, ma che difficilmente riuscirà mai a capeggiare, se continuerà ad essere percepito, e da noi comunicato, come un tema appunto del futuro, sebbene prossimo, e se verrà scisso e contrapposto ad altri temi oggettivamente percepiti come più impellenti e concreti per la vita attuale e quotidiana delle persone.
Non possiamo certo aspettare che catastrofi naturali chiaramente e direttamente riconducibili al climate change tocchino un numero di persone maggiore rispetto alla disoccupazione, al precariato o allo scarso reddito, per far capire che il tema del collasso ecologico è sovraordinante e esiziale: se arrivassimo a questo segno saremmo evidentemente finiti già ben oltre ogni punto di non ritorno possibile e immaginabile.
La nostra unica speranza allora è quella di non contrapporre il tema ecologico ad altri temi, ma far capire al contrario che la lettura ecologista è in realtà una chiave per reinterpretare e rivedere sotto luce nuova, tutto il resto dei nostri problemi, dalla salute, al benessere, al lavoro, alla mobilità, alla giustizia sociale, alla democrazia e alla partecipazione: in sintesi, l’organizzazione complessiva della nostra Società.
E’ decisivo comunicare questo messaggio, ma per comunicarlo dobbiamo prima interiorizzarlo, convincercene profondamente, anche perchè è splendidamente vero.
Come è drammaticamente vero che nella catastrofe ecoclimatica ci siamo dentro da decenni.
Da decenni il tasso di estinzione delle specie biologiche è assolutamente coerente con una fase di estinzione di massa, mentre l’agricoltura e l’allevamento industriali ci hanno fatto perdere nell’ultimo secolo oltre il 90% delle varietà delle specie vegetali e animali coltivate e allevate.
La crisi del 2008, e l’inizio della cosiddetta “stagnazione secolare”, con la conseguente fase di austerity, e di attacco al lavoro e allo stato sociale, è già probabilmente una crisi in definitiva connessa al picco di estrazione petrolifera, comunque una crisi dell’economia reale che si finanziarizza perchè non ha più margini di espansione dei consumi e di sfruttamento di nuove risorse (siamo forse arrivati a quella che Karl Marx avrebbe più o meno chiamato “crisi di sovrapproduzione finale del sistema capitalistico?”).
Le migrazioni forzate, i conflitti con esse connesse, e i fascismi e i populismi che su quei conflitti si innestano, sono in grande parte migrazioni dovute a disastri ecologici, o a guerre legate al possesso di risorse sempre più scarse, quindi a guerre anch’esse in definitiva di natura ecologica.
Gran parte delle nostre malattie, anche mortali, oltre a quelle croniche e degenerative, sono dovute ai livelli ormai insostenibili di inquinamento.
Potremmo continuare.
Lo sfascio eco-climatico, non è un problema futuro.
E’ un problema presente, presentissimo.
Ci siamo dentro fino alla punta dei capelli, e non da oggi.
Grande parte dei nostri attuali problemi sono già ad esso legati, anche se noi li chiamiamo in un’altra maniera, anche se diamo loro un nome diverso, così come le soluzioni migliori e più innovative per essi, sono connesse alla conversione ecologica, a quella transizione eco-sociale che le menti migliori e più avanzate hanno già tratteggiato nelle sue linee di fondo, e che va soltanto (… soltanto!) realizzata.
Per questo ho avuto una reazione non troppo convinta, quando ho visto questa iniziativa, sebbene fosse di grande impatto, creativa e comunicativa al massimo.
Un mio contatto sui social, in realtà un tenace negazionista climatico – quindi di parte, non certo l’utente medio – ha condiviso un articolo on line che parlava del Climate Clock, corredandolo col commento sarcastico “mo’ me lo segno”, in citazione del buon Massimo Troisi nella pellicola “Non ci resta che piangere”.
Benchè il sarcasmo provenisse appunto da fonte partigiana a noi ostile, quindi probabilmente non troppo significativa statisticamente, mi ha fatto riflettere.
Non c’è dubbio che il count-down, la clessidra, dia un senso un po’ apocalittico, appunto da “ricordati che devi morire”, e forse per assonanza ricorda alcuni complottismi tipo profezie Maya sul giorno della fine del Mondo.
Attenzione perchè siamo in una fase molto delicata: non possiamo rischiare di far scivolare il tema del collasso ecologico in questa dimensione percettiva, perchè sarebbe un autentico disastro politico.
Ho volutamente intitolato questo articolo “Sette anni alla fine del Mondo”, pur sapendo che è una frase tecnicamente sbagliatissima, proprio per focalizzare sul fatto che inevitabilmente, puntualmente, i titoli di tutti gli articoli che riportavano l’iniziativa di New York avevano questo taglio: non conta ciò che è vero, lo sappiamo bene, ma ciò che “passa”, e quello che passa è che stiamo contando il tempo che manca alla fine del Mondo.
L’immagine stessa del conto alla rovescia evoca questo, ed hai voglia a spiegare che si tratta del countdown per l’esaurimento del carbon budget: la gente capirà che è la dead line per la fine del Mondo, e questi saranno, inevitabilmente e senza appello, i titoli giornalistici.
Col rischio duplice di farci da una parte appunto passare per profeti di punizioni divine prossime venture, e dall’altra di screditarci in maniera devastante, dal momento che, tra sette anni, non ci sarà evidentemente nessuna fine del Mondo, e nessun evento particolarmente visibile e percepibile per le persone comuni.
Saremo semplicemente dentro, ancora più di oggi, molto più di oggi, un disastro planetario, avremo tanti problemi – molti più di oggi – ad esso connessi, ma molti di essi continueremo a percepirli come problemi a se stanti, non causati dalla crisi ecologica, anche se invece lo sono.
E certamente il giorno prima come il giorno dopo rispetto al momento zero del conto alla rovescia, il sole sorgerà in cielo e nessuno apprezzerà particolari differenze: la stragrande maggioranza delle persone continuerà a vivere la propria quotidianità come niente fosse, pensando tutto sommato che noi ecologisti un po’ come i Maya avevamo in fondo sparato tante sciocchezze.
Insomma: a lasciar pensare che un certo giorno avverrà qualcosa di particolare, il rischio è perdere credibilità quando quel giorno non succederà evidentemente niente di comprensibile e visibile alla persona della strada.
Non so se i miei timori siano fondati.
Del resto non ho idee alternative particolarmente brillanti per comunicare meglio la questione ecologica: non voglio quindi apparire ingrato o iper-critico verso coloro che riescono a “bucare” comunicativamente in qualche modo.
Diciamo che ho voluto sviscerare una qualche istintiva perplessità che mi è sorta spontanea, appena venuto a conoscenza dell’iniziativa, ed ho còlto l’occasione e tutto sommato forse il pretesto per una riflessione un po’ più ampia sul cosa dire e come dirlo rispetto al gigantesco problema che abbiamo davanti.
Non ho certezze, e spero che il dibattito possa proseguire.
di Mauro Romanelli, Presidente Associazione Ecolobby
per contattare Mauro Romanelli : mauroverde@yahoo.com
La foto è presa da Exibart